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Liberal Illiberalism, by Victor Davis Hanson.

Conservatives are put into awkward positions of critiquing liberal ideas on grounds that they are impractical, unworkable, or counterproductive. Yet rarely, at least outside the religious sphere, do they identify the progressive as often immoral. And the unfortunate result is that they have often ceded moral claims to supposedly dreamy, utopian, and well-meaning progressives, when in fact the latter increasingly have little moral ground to stand upon.

Take a few contemporary controversies.

Radical environmentalism. When “conservation” sometime in the 1970s was redefined as “environmentalism,” the morality of the entire issue likewise changed. Most Americans had wanted clean air and water; and they were willing to pay to curb pollutants and drive more expensive, but cleaner, cars. They had no desire to see condors die off or kit foxes disappear.

But at some point, the green creed began to dictate that all species were equal to humans. Soon concern for a tiny frog or worm trumped a needed project — a dam, an irrigation canal, an oil well, or a mine — designed to alleviate human suffering. Here I am not talking about large-scale species annihilation, but rather taking a truth about wishing to protect a natural habitat and perverting it into elevating concerns for insects, amphibians, and small fish over people’s elemental struggles to exist and prosper.

When California elites shut down 250,000 acres of irrigated agriculture to divert water into the San Francisco regional delta and bay, purportedly as a remedy to help the three-inch delta smelt, they were making a loud moral statement that those who mostly had secure jobs, mostly nice homes, and well-off environments were going to destroy the jobs of those in agriculture — not just the land owner and foreman, but the agricultural workers themselves — without much worry over the consequences.

Read the complete article in PJ Media.


Solzhenitsyn’s Harvard Address

A classic text from one of the greatest thinkers, writers and witness of the XXth Century.

A World Split Apart. Text of Address by Alexander Solzhenitsyn at Harvard Class Day Afternoon Exercises, Thursday, June 8, 1978.

here you can read about the background of the address in the Harvard Magazine


William Buckley, il demiurgo dei conservatori; by Marco Respinti

«Kennedy si lamenta continuamente che noi stiamo tentando di diffondere il messaggio comunista in tutta l’America latina. Che si lamenti pure. Diffondere la rivoluzione è affar nostro». Così Fidel Castro arringa i compagni nel thriller di William Frank Buckley jr. Caccia alla mangusta (trad. it., Sonzogno, Milano 1988) dove la CIA cerca di far fuori il líder maximo alla vigilia dell’attentato che invece ucciderà JFK.

Caccia alla mangusta è un’opera di fantasia, certo; eppure Buckley qualcosina delle mosse della CIA la sapeva per davvero. Per molti versi Blackford Oakes, il protagonista dei suoi gialli (scontato il riferimento allo 007 di Ian Fleming, anche se qui l’agente è americano), interpreta Buckley stesso: sciccherie, Ivy League e qualche scrupolo morale quando è l’ora di premere il grilletto. Ma su quel melange di fiction e di verità storiche, di cui si compongono giocoforza i polizieschi buckleyani, la precedenza logica e cronologica l’ha proprio il rapporto di amorosi sensi con l’Agenzia, quella vera. Senza di essa, Buckley non sarebbe infatti mai stato Buckley; negli Stati Uniti non ci sarebbe mai stato il movimento conservatore; alla Casa Bianca si sarebbero seduti altri presidenti; insomma, il mondo sarebbe stato diverso. Buckley è allora la prova provata del complottone dei servizi segreti? Qualcuno lo ha pensato e pure scritto, ma ci si è guadagnato solo il Nobel del fantasy (che per l’appunto non esiste).

Buckley è infatti sempre stato troppo originale, libero, istrionicamente indomabile e talora persino stizzoso per agire da semplice figurante o far da fantoccio. E poi ha sempre avuto più classe. Mettiamola così: ebbe una idea geniale; la trasformò in un progetto serio quando a qualche cocktail incontrò le persone giuste che avevano la forza pratica di fargliela realizzare; se ne servì con una eleganza che ha fatto invidia a molti; e nel mezzo ci si è pure divertito. La CIA? Sia lode, se uno come Buckley ha saputo aggiogarla ad maiora.

Di Buckley il 27 febbraio sono ricorsi quattro anni da quando fu trovato, 82enne, stroncato da un colpo al cuore sul pavimento della sua casa di Stamford, in Connecticut, dove da qualche anno si era oramai  ritirato. Non certo a vita privata, ma a riflettere su quella sua esistenza lunga, e ricca, e perché no pure felice, apparecchiandosi alla morte. Paura no, interrogativi sì. Sapeva a menadito, perché tutti i conservatori old-style lo sapevano a menadito, quella frase che Platone mette in bocca a Socrate, «Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta», e lui di cose da esaminare ne aveva tante.

Nel 1997 aveva pubblicato Nearer, My God to Thee: An Autobiography of Faith (Doubleday, New York) chiedendosi profondamente di Dio, di quel Dio cristiano e cattolico che amava in modo profondo e maschio, anche guascone ma sempre devoto. Chiedersi di Dio, della morte e pure del dopo è infatti lecitissimo se si è credenti della stoffa di Buckley, cioè cattolici “da rito antico”, “Catechismo di san Pio X” e interesse per la mistica italiana Maria Valtorta (1897-1961). Era del resto venuto su così, Buckley, rampollo di quelle gang altolocate e un po’ puzzosottoilnasiste che a New York un tempo c’erano e che sono state anche fucina di cattolici tutti d’un pezzo, finiti poi a ingrossare le fila del mondo conservatore. Lì Buckley nacque nel 1925.

Ricordo distintamente quando, qualche anno prima dell’uscita in libreria di Nearer, My God to Thee, Russell Kirk (1918-1994), il decano dei conservatori, ricevette da Buckley – come la ricevettero alcuni altri spiriti magni di quel mondo – una richiesta di proferire qualche pensiero forte su Dio da rimuginare e macerare in quel suo libro di molto dopo, faticoso, accidentato, che egli andava lentamente costruendo. La fede granitica di Buckley riposava certamente sulla dottrina della Chiesa dei cattolici e però questa egli un dì l’apostrofò «madre sì, maestra no», facendo pure un po’ di confusione fra Papa, clero e teologi, al tempo del post-Concilio aggressivamente sbalestrato. A tratti fu interlocutoria anche la sua fede, magari persino dubbiosa, ma dov’è lo scandalo? La vertigine sublime del fascino di Dio che tutto abbraccia si palpa sempre in ogni cosa che Buckley ha scritto, e detto, e fatto, persino negli svarioni e negli errori, che sono pure stati tanti e grandi, proprio come tanti e grandi sono stati suoi nemici e i suoi critici che spesso avevano più ragione di lui ma altrettanto frequentemente carità pochina.

Read complete article in La Bussola Quotidiana


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