La sera di martedì 4 febbraio Eugenio Corti ha fatto ritorno al Padre. Classe 1921, lo scrittore aveva conformato la sua vita al versetto del Padre Nostro che recita “Venga il Tuo Regno”, combattendo la buona battaglia tramite la scrittura.
Uomo dal portamento distinto e dal fare pacato ma anche caparbio, Corti scrutava con i suoi attenti occhi azzurri i tanti lettori, molto spesso giovani, che si recavano a trovarlo nella sua casa in Brianza. Personalmente ricordo il suo atteggiamento vigoroso e paterno, dettato e supportato dalle decisive esperienze maturate durante la Seconda Guerra Mondiale e da una fede granitica. Dialogando con lui si aveva la percezione di essere di fronte a un maestro da cui attingere preziose considerazioni sul passato e sull’epoca contemporanea; nel contempo, emergeva anche la consapevolezza di essere in presenza di una persona cui – da cattolici – guardare come modello di comportamento, perché lo sguardo di Corti, benché permeato di un sano realismo, era sempre orientato a Dio.
Non a caso, accanto all’età d’oro greca, il periodo storico più amato dallo scrittore brianteo era il Medioevo, ossia l’epoca in cui il messaggio cristiano si è diffuso in maniera capillare ed è diventato un fenomeno ‘di popolo’, dando luogo alla Res Publica Christiana. In quei secoli, troppo spesso classificati come ‘bui’ e invece ricchissimi sotto diversi aspetti, ogni ambito del vivere quotidiano era orientato – seppur con le dovute eccezioni – agli ideali del Vangelo: dal modo di concepire la guerra e la cavalleria, allo sviluppo dell’arte pittorica e architettonica, al ruolo assegnato alle donne… E proprio riguardo quest’ultimo aspetto, entrando nella casa di Corti si rimaneva piacevolmente colpiti dalla presenza riservata, ma assolutamente rilevante, di sua moglie Vanda, che lo scrittore contemplava ancora con sguardo innamorato e riconoscente, nonostante fossero sposati dal 1951.
Ma si diceva della centralità della fede nella vita e nel pensiero di Corti, la quale trova conferma anche nei suoi articoli e nei libri – molto vari per genere e argomento – ch’egli ha scritto dal 1947 in avanti. Tra questi spicca per importanza il romanzo storico Il Cavallo Rosso (Edizioni Ares, 1983), oramai giunto alla ventinovesima edizione e tradotto in otto lingue. Questo testo – che ha richiesto a Corti ben undici anni di lavoro – narra le vicende di alcuni ragazzi della Brianza e del loro incontro con il mondo esterno, sullo sfondo dei grandi avvenimenti storici succedutisi in Italia e nel mondo tra il 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, e il 1974, anno del referendum sul divorzio. Scorrendo pagina dopo pagina, moltissimi lettori sono rimasti avvinti nella narrazione e – oltre ad aver potuto rivivere quasi in presa diretta gli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione – hanno avuto modo di apprezzare le riflessioni storiche, teologiche e teleologiche che Corti non mancava mai di inserire nei propri scritti, in forma più o meno diretta.
Un’altra opera fondamentale lasciataci dallo scrittore brianteo è Il fumo nel Tempio (Edizioni Ares, 1996), una raccolta di articoli scritti dal 1970 in poi sulla difficile situazione della Chiesa nel post Concilio, sulla perdita di valori della società, sulla crisi della politica e in particolare della Democrazia Cristiana e, infine, sull’egemonia di una cultura di matrice laica e troppo spesso ideologizzata. Sono testi di una lucidità spesso disarmante, propria di un osservatore attento e onesto qual era Corti, convinto che il parametro di giudizio cui fare riferimento è sempre l’insegnamento di Cristo, perché solo in questo modo è possibile vivere in pienezza e gustare anche in terra un imperfetto assaggio di felicità e di Bellezza.
Sintomatica di quest’approccio alla vita è la risposta data da Corti alla domanda su quale fosse la cosa più bella che gli sia mai accaduta: «L’essere venuto al mondo, sicuramente. La prova è stata anche dura, come per tutti. Ma è stato l’esistere, l’essere, che mi ha aperto tutte le altre porte. Anche quella della consolante Speranza cristiana in una felicità intramontabile in Dio, dopo la morte terrena».
Al termine di una vita intensa e luminosa, la poesia posta da Eugenio Corti in calce alle 1274 pagine che compongono Il Cavallo Rosso appare quasi come un suo testamento: “Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, / li amava, / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama” (T.S. Eliot). Requiescat in pace!
Published in La nuova bussola quotidiana
After the fall of the Berlin Wall, some people predicted that global affairs had reached “the end of history” and that democratic capitalism had definitively triumphed.
Vedendo tutta Mosca riscuotersi dal grigio torpore e accalcarsi intorno alle edicole per strappare una copia di «quella rivista dov’è scritta la verità» (nel novembre 1962 il prestigioso mensile Novyj mir pubblicava Una giornata di Ivan Denisovic, il primo racconto sui lager), giustamente Sergej Averincev osservava: «Questa ormai non è più solo storia della letteratura – è storia della Russia». La grande letteratura russa, del resto, non si è mai concepita solo come un fenomeno letterario, si è sempre sentita investita di una vocazione morale e pedagogica nel senso più elevato della parola, e così è sempre stata recepita dai suoi lettori, che potevano recitare senza esitazioni, come preghiere, accanto ai salmi le poesie del Dottor Zivago.
Il romanzo incompiuto di Solzenicyn Ama la rivoluzione!, finora inedito in Italia ma pubblicato ora dalla milanese Jaca Book, per la cura di Sergio Rapetti, a oltre cinquant’anni dalla sua composizione, ripropone questa grande lezione registrando, sullo sfondo del gigantesco dramma della seconda guerra mondiale, lo svolgersi di un altro dramma: il faticoso ma inarrestabile cammino dell’«io» umano verso la scoperta della verità, passando dagli slogan altisonanti e vacui dell’utopia («La vita era bellissima. In primo luogo perché era sottomessa alla volontà di Nerzin che poteva disporne a suo piacimento [...]. Era cresciuto nella convinzione che ogni uomo debba forgiare da sé il proprio destino»), al terreno aspro e accidentato, ma solido, della realtà («[…] quello sguardo di migliaia, inflessibile, cupamente testardo ma che senz’altro racchiudeva un segreto, un segreto senza il quale sarebbe stato impossibile vivere»). È il cammino percorso da un intero popolo, di cui Solženicyn ha sempre avvertito la responsabilità di custodire la memoria e la coscienza, e insieme il suo stesso cammino personale, tracciato attraverso la figura del protagonista, Gleb Nerzin (lo stesso nome prenderà il protagonista nel successivo, maturo romanzo Il primo cerchio).
Ama la rivoluzione!, presentato alla Biblioteca Ambrosiana l’8 marzo scorso alla presenza di Ignat Solženicyn, uno dei figli dello scrittore, narra la vicenda di un giovane intellettuale sorpreso dallo scoppio della guerra nelle aule universitarie di Mosca, impaziente di combattere in prima linea per aggiudicare alla patria la vittoria finale e portare la rivoluzione in tutto il mondo, ma costretto – in quanto riformato alla visita medica – a una poco esaltante marcia verso le retrovie in un reparto di salmeria («il contingente degli invalidi»).
È un’opera profondamente autobiografica, scritta da Solženicyn nel 1948 mentre era internato in un campo di lavoro per scienziati, la saraska di Marfino, fortunosamente messa per iscritto (a differenza di altre opere dello stesso periodo, in particolare il poema La stradina, 8mila versi serbati per anni dall’autore nella memoria), e salvata da una coraggiosa funzionaria del lager che gliel’avrebbe restituita sei anni dopo. Un’opera in cui l’autore fissa il mutamento che sta avvenendo in lui, intellettuale comunista e brillante ufficiale arrestato durante la guerra, costretto dalle circostanze a rivedere tutte le proprie convinzioni.
L’ingloriosa marcia di Gleb, che cerca disperatamente, lungo tutta la narrazione, di mutarne la rotta per inseguire i suoi ideali, è in realtà il percorso della vita, che si incarica, per Nerzin come per Solzenicyn, di liberare l’intellettuale entusiasta, confidente nel «giovane paese dalla rossa bandiera», dalle sue utopistiche convinzioni. È un processo liberatorio che avviene secondo un duplice registro: il tribunale della storia e il tribunale della coscienza qui si uniscono per ricondurre la persona a se stessa. A questo conduce lo scontro di Nerzin con la burocrazia, la miopia e gli interessi individuali che soppiantano nel sistema i luminosi ideali del socialismo e, più in generale, ogni idea di giustizia e di bene comune («viveva e soffriva il tracollo sempre più evidente dell’Armata Rossa come la malattia mortale di un congiunto… A quale scopo vivere se ciò che di più luminoso era apparso nella storia dell’umanità veniva soffocato?»); a questo conduce il suo scontro con l’atrocità delle repressioni, della vita ai lavori forzati e in deportazione attraverso i racconti dei nuovi vicini di casa, i Diomidov, che squarciano un velo su una realtà apparentemente remota ma in realtà così prossima da sfiorare il protagonista e la moglie.
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