E il mito si fece carne. L’avventura di Russell Kirk, by Marco Respinti.

Il logos si è fatto carne, dice il Vangelo secondo san Giovanni. E quindi anche il mito è divenuto un fatto, glossa C.S. Lewis (1898-1963) in un breve, densissimo saggio del 1944, Myth Became Fact, che spiega perfettamente cosa intendesse J.R.R. Tolkien (1892-1973) affermando: «Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. […] L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”» (Sulle fiabe, 1939); cosa intendesse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) ‒ maestro di Lewis e di Tolkien ‒ parlando di “etica del paese delle fate” e addirittura paragonando il Magnificat alla fiaba di Cenerentola (Ortodossia, 1908); e cosa intendessero Chesterton e Lewis con “sacramentalizzazione dell’immaginazione” a proposito di George MacDonald (1824-1905), maestro loro e pure di Tolkien.

Ne tratta dottamente, proprio ragionando degli autori citati, il cardinal Christoph Schönborn ne Il Mistero dell’Incarnazione (Piemme, Milano 1989), un “vecchio”, prezioso libro tradotto dal tedesco dal padre gesuita Guido Sommavilla (1920-2007), massimo esperto di Romano Guardini, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche, Fëdor M. Dostoevskij e guarda caso proprio Tolkien, quasi anticipando una sensibilità teologica, nutrita di potenti suggestioni letterarie, popolare oggi con Papa Francesco. Ebbene, uno degli ultimi epigoni di questo sposalizio tra filosofia e fantasia celebrato secondo il rito di santa romana Chiesa è il pensatore statunitense Russell Kirk (1918-1994), di cui ricorre oggi, 29 aprile, il ventennale della scomparsa.

Kirk è noto soprattutto come “padre” del conservatorismo americano del secondo Novecento, come neo-giusnaturalista cristiano alla scuola di Edmund Burke (1729-1797) e come apologeta antigiacobino della storia istituzionale americana. Ma nulla di tutta la sua riflessione “politica” (30 volumi, centinaia fra saggi e articoli) sarebbe venuto alla luce se egli non avesse sempre coltivato, con timore e tremore, il senso del mistero insito nella realtà umana.

Kirk è stato infatti anzitutto un cantore dell’irriducibilità dell’esperienza umana alla semplice materia (una delle sue citazioni preferite è di Burke, là dove lo statista anglo-irlandese descriveva così la spaccatura epocale introdotta dalla Rivoluzione Francese: «Ma l’era della cavalleria è finita. Le è succeduta quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori, e la gloria d’Europa è estinta per sempre»), e proprio per questo un avversario lucido delle ideologie e delle ideocrazie.

Per Kirk la stoffa dell’avventura umana è il legame con il trascendente che la definisce e il bisogno religioso che la costituisce, da cui derivano quel senso del limite e quella vocazione comunitaria che sono le uniche coordinate di una politica a misura di uomo, e possibilmente, direbbe san Giovanni Paolo II (a cui, in punto di morte, è andato l’ultimo pensiero di Kirk), secondo il piano di Dio. Per questo il pensatore americano sospettava di tutte quelle ciclopiche costruzioni umane, fisiche e metafisiche, che altro non sono se non ennesime Babeli; come Chesterton, Kirk aveva imparato dalle metafore delle favole che i giganti vanno abbattuti proprio perché sono giganteschi, monumenti vani alla smisuratezza dell’orgoglio umano.

La famiglia in cui nacque aveva educato Kirk a una morale rigida e spartana, erede di un retaggio calvinista che strada facendo aveva però perso i tratti della vera spiritualità riducendosi a un codice. Efficace, ma estremamente limitato. Costretto a lungo alla solitudine, Kirk prese allora a confrontarsi con quei campioni dell’umano sentire che prima di lui, e meglio di lui, si erano trovati ad affrontare le stranezze, le difficoltà e le domande dell’esistenza. Maturò dunque dialogando con autori che nessuno leggeva più: Kirk l’ha definita una “conversione intellettuale”, ma è strano perché quell’etichetta lo irritava. Voleva solo dire che nessun fatto eclatante gli stravolse un giorno la vita; ma anche qui, intendiamoci. Le molte narrazioni della sua storia personale (scritte come romanzi non romanzati) mostrano bene come la “normalità” della sua vita sia sempre stata “straordinaria”. Come le vite di tutti. Come in una favola, una fiaba o un mito (direbbe il Tolkien che Kirk molto amava) che per di più hanno il supremo vantaggio di essere accaduti sul serio.

Kirk ha affrontato de visu il mistero dell’esistenza umana anzitutto come cantore dell’avventura “mitica” dell’uomo di fronte all’Assoluto (componendo così anche storie di paura e thriller metafisici tra i più belli di questo genere letterario) e in questo modo ha imparato l’umile saggezza di farsi seguace di chi, più avanti di lui lungo questo cammino, lo ha saputo trarre per mano dal mito alla storia. Due nomi su tutti, appositamente diversissimi: il “grande” T.S. Eliot (1898-1965) ‒ di cui fu prima discepolo, e poi amico e biografo ‒ e Annette, l’“attivista” cattolica che sposerà nel 1964, “piccola” parrebbe, ma enorme nel portarne a conclusione la conversione, avvenuta in quello stesso 1964 (mezzo secolo fa esatto).

Read the complete article in La Nuova Bussola Quotidiana


Eugenio Corti, il cantastorie del Regno, by Giulia Tanel

La sera di martedì 4 febbraio Eugenio Corti ha fatto ritorno al Padre. Classe 1921, lo scrittore aveva conformato la sua vita al versetto del Padre Nostro che recita “Venga il Tuo Regno”, combattendo la buona battaglia tramite la scrittura.

Uomo dal portamento distinto e dal fare pacato ma anche caparbio, Corti scrutava con i suoi attenti occhi azzurri i tanti lettori, molto spesso giovani, che si recavano a trovarlo nella sua casa in Brianza. Personalmente ricordo il suo atteggiamento vigoroso e paterno, dettato e supportato dalle decisive esperienze maturate durante la Seconda Guerra Mondiale e da una fede granitica. Dialogando con lui si aveva la percezione di essere di fronte a un maestro da cui attingere preziose considerazioni sul passato e sull’epoca contemporanea; nel contempo, emergeva anche la consapevolezza di essere in presenza di una persona cui – da cattolici – guardare come modello di comportamento, perché lo sguardo di Corti, benché permeato di un sano realismo, era sempre orientato a Dio.

Non a caso, accanto all’età d’oro greca, il periodo storico più amato dallo scrittore brianteo era il Medioevo, ossia l’epoca in cui il messaggio cristiano si è diffuso in maniera capillare ed è diventato un fenomeno ‘di popolo’, dando luogo alla Res Publica Christiana. In quei secoli, troppo spesso classificati come ‘bui’ e invece ricchissimi sotto diversi aspetti, ogni ambito del vivere quotidiano era orientato – seppur con le dovute eccezioni – agli ideali del Vangelo: dal modo di concepire la guerra e la cavalleria, allo sviluppo dell’arte pittorica e architettonica, al ruolo assegnato alle donne… E proprio riguardo quest’ultimo aspetto, entrando nella casa di Corti si rimaneva piacevolmente colpiti dalla presenza riservata, ma assolutamente rilevante, di sua moglie Vanda, che lo scrittore contemplava ancora con sguardo innamorato e riconoscente, nonostante fossero sposati dal 1951.

Ma si diceva della centralità della fede nella vita e nel pensiero di Corti, la quale trova conferma anche nei suoi articoli e nei libri – molto vari per genere e argomento – ch’egli ha scritto dal 1947 in avanti. Tra questi spicca per importanza il romanzo storico Il Cavallo Rosso (Edizioni Ares, 1983), oramai giunto alla ventinovesima edizione e tradotto in otto lingue. Questo testo – che ha richiesto a Corti ben undici anni di lavoro – narra le vicende di alcuni ragazzi della Brianza e del loro incontro con il mondo esterno, sullo sfondo dei grandi avvenimenti storici succedutisi in Italia e nel mondo tra il 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, e il 1974, anno del referendum sul divorzio. Scorrendo pagina dopo pagina, moltissimi lettori sono rimasti avvinti nella narrazione e – oltre ad aver potuto rivivere quasi in presa diretta gli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione – hanno avuto modo di apprezzare le riflessioni storiche, teologiche e teleologiche che Corti non mancava mai di inserire nei propri scritti, in forma più o meno diretta.

Un’altra opera fondamentale lasciataci dallo scrittore brianteo è Il fumo nel Tempio (Edizioni Ares, 1996), una raccolta di articoli scritti dal 1970 in poi sulla difficile situazione della Chiesa nel post Concilio, sulla perdita di valori della società, sulla crisi della politica e in particolare della Democrazia Cristiana e, infine, sull’egemonia di una cultura di matrice laica e troppo spesso ideologizzata. Sono testi di una lucidità spesso disarmante, propria di un osservatore attento e onesto qual era Corti, convinto che il parametro di giudizio cui fare riferimento è sempre l’insegnamento di Cristo, perché solo in questo modo è possibile vivere in pienezza e gustare anche in terra un imperfetto assaggio di felicità e di Bellezza.

Sintomatica di quest’approccio alla vita è la risposta data da Corti alla domanda su quale fosse la cosa più bella che gli sia mai accaduta: «L’essere venuto al mondo, sicuramente. La prova è stata anche dura, come per tutti. Ma è stato l’esistere, l’essere, che mi ha aperto tutte le altre porte. Anche quella della consolante Speranza cristiana in una felicità intramontabile in Dio, dopo la morte terrena».

Al termine di una vita intensa e luminosa, la poesia posta da Eugenio Corti in calce alle 1274 pagine che compongono Il Cavallo Rosso appare quasi come un suo testamento: “Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, / li amava, / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama” (T.S. Eliot). Requiescat in pace!

Published in La nuova bussola quotidiana


“Non c’è successo economico senza ordine morale”, by Maria Claudia Ferragni

In questa prima settimana di luglio, nel corso della quale gli americani festeggiano l’anniversario della loro indipendenza, si trovano in Italia due economisti legati alla presidenza Reagan: Howard Segermark, ex-collaboratore di Arthur Laffer, l’economista che ha impostato teoricamente la Reaganomics, e Grover Norquist, fondatore e Presidente di Americans for Tax Reform, considerato uno degli uomini più influenti di Washington (oggi parlerà in un incontro pubblico a Roma alle 17 presso l’Hotel Nazionale, in piazza Montecitorio). Entrambi ospiti del Columbia Institute, portano in Italia la loro esperienza di indomiti paladini della libertà economica e individuale. Ma ci raccontano anche di un’America che sta vivendo un momento storico di transizione e che si sta avviando sempre più in fretta verso la pericolosa strada dello stato sociale europeo, anche per ciò che riguarda la messa in discussione dei valori fondanti la civiltà occidentale.

Della attuali sfide della galassia conservatrice abbiamo parlato a Milano con Howard Segermark, oggi vice presidente della Patten Associates, società specializzata in relazioni con il governo, esperto lobbista a difesa dei diritti di proprietà, attivo in molteplici associazioni e fondazioni conservatrici anche in ambito culturale.

Signor Segermark, qual è la situazione attuale del movimento conservatore negli Stati Uniti?

I Conservatori si trovano ad affrontare i problemi creati dalle politiche del presidente Obama. In particolare, il suo risultato più importante nel corso del primo mandato è stata l’approvazione dell’Obamacare (la nuova legge che rende obbligatoria l’assicurazione sanitaria per tutti, ndr), una vera e propria usurpazione massiccia dell’assistenza medica da parte dello stato. E’ ora chiaro che la legge approvata dal Congresso non potrà essere applicata a partire dall’anno prossimo, come era stato promesso, e non potrà essere implementata senza un massiccio incremento delle tasse. Inoltre, circa il 25% degli americani resterà ancora privo di un’assistenza sanitaria adeguata. Quindi la legge non ha risolto il problema per il quale è stata creata, sarà molto più costosa del previsto e, infine, probabilmente ridurrà l’ambito dell’assistenza medica per gli americani. Ciò accade perché non è mai successo che i burocrati siano in grado di risolvere un problema. Il Senatore repubblicano Paul Ryan (candidato alla Vice-Presidenza lo scorso novembre, ndr) ha invece una proposta alternativa, che restituisce alla persona la libertà  e responsabilità di decidere quale piano di assistenza sanitaria scegliere e mi auguro che possa essere approvata se nel 2016 dovesse essere eletto Presidente un repubblicano. L’Obamacare, invece, impone ai giovani pesanti carichi fiscali per sostenere le spese sanitarie degli anziani; mentre sarebbe meglio, come previsto da Ryan, creare incentivi perché i giovani possano risparmiare per pagarsi da soli l’assistenza medica quando saranno a loro volta anziani.

Quali sono altri problemi che i conservatori devono affrontare?

La grande recessione economica. Da quando Obama è stato eletto, gli Stati Uniti hanno avuto una crescita inferiore al 3% in ciascun quadrimestre, senza soluzione di continuità. Di conseguenza, l’America ha vissuto una diminuzione di ricchezza a cui non era abituata, al contrario dell’Europa che sembra essersi assuefatta a questi dati statistici. Le politiche di Obama hanno sottratto circa 2.800 miliardi di dollari all’economia e non possiamo non pensare a quale tragedia sia questa perdita di ricchezza in termini di posti di lavoro, investimenti, ricerca. Quando l’economia vive un periodo di stagnazione, in Europa le persone si rivolgono allo Stato, che in un certo senso acquisisce nuovi “clienti”: ecco, questa situazione per noi americani è nuova, ma siamo arrivati al punto che ci sono oggi 70 milioni di americani che vivono con i “food stamps”(buoni pasto statali, ndr), ma è un sistema molto corrotto perché ormai da molti anni i food stamps vengono venduti sul mercato nero a 50 centesimi l’uno per ogni dollaro di valore. Ad esempio, una famiglia  di 4 persone che ha 100 dollari in buoni pasto può ottenerne 50 vendendoli al mercato nero, per comprare la birra… E’ quindi un sistema che per il 50%  si risolve in uno spreco totale.

Osservandoli dall’esterno, sembra che i Conservatori non riescano a trovare la strada giusta o il candidato giusto per risollevarsi, è vero?

Vede, tutta la politica americana negli ultimi vent’anni si è trovata ad affrontare due grandi problematiche: la caduta del Muro di Berlino e l’11 settembre. Nessuno dei due partiti è unanime nel modo di risolvere questi problemi. Obama ha ridicolmente vietato l’uso della parola “terrorismo”, definendo ad esempio l’attacco di chiara e lampante matrice jihadista nella base militare di Fort Hood del 2009 “un’atto di violenza sul posto di lavoro”… Si tratta perciò davvero di una situazione politica complessa e anche i Democratici hanno difficoltà nel digerire questo tipo di interpretazione dei fatti. Inoltre, nel mondo di oggi in cui gli Stati Uniti sono l’unica vera super-potenza globale è molto difficile gestire la politica estera: bisogna forse smettere di pensare di intervenire in ogni singolo conflitto nel mondo? L’esempio della Siria è emblematico: mi chiedo se gli Stati Uniti hanno un interesso diretto in quel conflitto. L’unico che ha mai sostenuto la politica americana è Assad… certo, è un dittatore. Ma se gli Stati Uniti consentono ai jihadisti e ai cloni della Fratellanza Musulmana di conquistare un altro Paese, questo non aiuterà il conflitto né la causa della civiltà occidentale.

Come ha reagito l’opposizione repubblicana?

Ecco, si tratta di uno degli esempi migliori della spaccatura che stanno vivendo. Il senatore John McCain è andato in Siria e ha incontrato molte persone chiedendo di creare una “no fly zone” sulla Siria, che corrisponde a un atto di guerra, mentre Obama sta cercando di armare alcuni dei  ribelli, ma non sa bene chi siano e, di fatto, non lo sa nessuno. E’ indubbio allora che pensare di intervenire per creare una democrazia, come non siamo riusciti a fare in Iraq e in Afghanistan, diventerebbe un atto di hubris politica.

Read the complete article in La Nuova Bussola Quotidiana


Democrazia anti-cristiana, by Riccardo Cascioli

Non solo è inquietante il filo rosso anti-cristiano delle azioni delle attiviste di Femen, ancor più lo è la reazione ostentatamente “morbida” delle forze di polizia nei vari paesi europei teatro delle esibizioni delle donne in topless. Se poi – vedi la Francia – mettiamo a confronto la tolleranza di cui godono gli attacchi delle Femen con l’inaudita violenza usata dalle forze di polizia ai danni dei pacifici dimostranti contro le unioni omosessuali, l’inquietudine diventa allarme.

Il fenomeno è così evidente che il governo francese dovrà rendere ragione della sua disparità di trattamento al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Tale organismo riunisce gli ambasciatori dei 47 paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa; esso esercita soprattutto un potere di controllo sugli Stati per quanto riguarda il rispetto della democrazia, dei diritti umani, e dello stato di diritto.

Nei giorni scorsi quindi è stata presentata un’interrogazione al Comitato dei ministri da parte di Luca Volontè, presidente del gruppo del Partito Popolare Europeo all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il quale ricorda la violenza gratuita delle forze di polizia contro quell’enorme folla che nelle settimane scorse ha sfilato pacificamente per Parigi per protestare contro la legge – voluta dal presidente Holland – che permette il matrimonio a persone dello stesso sesso e addirittura l’adozione. Ci sono numerose riprese fotografiche e video che mostrano come le forze francesi abbiano usato il pugno di ferro contro i manifestanti, tra cui numerose donne e bambini.

La violenza è poi divenuta intimidazione: si ricorda il caso dell’uomo costretto a pagare una multa salata perché indossava una t-shirt con il logo della manifestazione, e poi i 67 giovani arrestati e tenuti in guardiola per una giornata intera solo per aver protestato (peraltro in silenzio) vicino alla sede dell’Assemblea Nazionale.

Dall’altra parte, invece, le attiviste di Femen godono di una impunità ben poco comprensibile all’apparenza, visto che le loro aggressioni contro persone e luoghi di culto si stanno moltiplicando. Perciò l’interrogazione chiede anche che il Consiglio d’Europa intervenga per far cessare in Francia le violenze delle forze dell’ordine contro i cristiani, oltre che indagare sulle attività di Femen.

Read the complete article in La Nuova Bussola Quotidiana


Robert Bork o dell’irriducibile fedeltà al vero, by Marco Respinti

Robert Bork è morto il 19 dicembre all’età di 85 anni ad Arlington, in Virginia, ma alla memoria di chi ha amore per la verità non mancherà mai.
Robert Heron Bork era nato il 1° marzo 1927 a Pittsburgh, in Pennsylvania, è stato giudice combattivo ed eminente giusperito, e i suoi nemici lo hanno odiato al punto di coniare per lui un neologismo, il verbo “to be borked”, ovvero vedersi precludere incarichi di prestigio per via mediatico-democratica. Candidato a diventare giudice della Corte Suprema, Bork fu infatti travolto dall’uragano di contumelie scatenatogli addosso dalla magistratura politicizzata a sinistra, dalla Sinistra politica e della stampa “progresssita” e “illuminata”.Per carità, avvenne tutto secondo le regole democratiche, ma è proprio in casi come questi che le regole da sole mostrano di non essere affatto sufficienti e la democrazia senza orientamenti morali sbanda.

Bork aveva infatti un grande, enorme difetto. Credeva in maniera tetragona nel diritto alla vita, nella famiglia monogamica eterosessuale e nella Bibbia piuttosto che a Charles Darwin, e non perdeva occasione per dirlo; ovvero, da uomo di legge e di cultura qual era, per mettere in guardia gli americani dai guasti che il relativismo sempre più imperante produce. Orbene, tutto ciò negli Stati Uniti fa di una persona sia un conservatore sia il bersaglio preferito dei cosiddetti liberal.

Tutto iniziò il 1° luglio 1987, quando l’allora presidente Ronald Reagan annunciò la decisione di proporre Bork alla suprema magistratura giuridica del Paese. All’epoca Bork era (sempre per nomina reaganiana) giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia, dopo essere stato a lungo e onoratamente docente di Diritto nell’Università Yale, specializzato in norme antitrust, e avere avuto come studenti una pletora di nomi famosi, fra cui Bill e Hillary Clinton.
Reagan aveva però già commesso due “delitti” imperdonabili agli occhi dei liberal: nel 1986 aveva proposto William Rehnquist come presidente della Corte Suprema e il giudice Antonin Scalia come nuovo membro della stessa assise. Rehnquist era colui che nel 1973 aveva firmato il parere di minoranza contro la sentenza che, a chiusura del famoso, e famigerato, e basato su una frottola, caso “Roe v. Wade”, ribaltò improvvisamente, con un vero e proprio colpo di mano, le leggi a favore della vita umana nascente allora vigenti in numerosi Stati dell’Unione americana legalizzando l’aborto ovunque. Scalia era un altro noto campione del conservatorismo culturale e sociale, e per di più un cattolico integerrimo. Per la Commissione sulla Giustizia del Senato federale di Washington, l’organismo incaricato di vagliare le qualità professionali dei giudici indicati dalla Casa Bianca, permettere a Reagan d’inserire in quella formidabile squadra pure Bork fu troppo. E l’inferno si scatenò.

Fu Ted Kennedy ad appiccare il fuoco. Erano infatti trascorsi solo una manciata di minuti dall’annuncio della decisione di Reagan che il senatore Democratico del Massachussetts Ted Kennedy pronunciò un discorso inverecondo e strabiliante in cui affermò che con Bork alla Corte Suprema le donne statunitensi sarebbero state costrette ad abortire clandestinamente nei vicoli bui, che per le persone di colore si sarebbe riaperta la stagione della segregazione razziale, che i cittadini avrebbero dovuto guardarsi le spalle dagli agenti della “gendarmeria morale” e che tutti quanti avrebbero dovuto combattere quotidianamente contro una pervicace censura del “libero pensiero” degna di uno Stato totalitario.

Il discorso di Kennedy suonò la sveglia, e tanto i media quanto gli avversari politici di Bork scesero immediatamente in campo. La Commissione Giustizia del Senato fu subito lo strumento opportuno per fare la guerra a Bork, ma soprattutto a ciò che Bork (come Reagan) rappresentava in termini culturali e giuridici. La lotta fu senza quartiere e senza precedenti. Già non si poteva tollerare che qualcuno nutrisse la fede nei “princìpi non negoziabili” che animava graniticamente Bork, ma che poi questo qualcuno diventasse pure membro dell’organismo preposto a vegliare sulla costituzionalità delle leggi americane, e per giunta con la benedizione palese di un presidente “reazionario” e connivente, era, per un certo mondo, inconcepibile.

 

Read the complete article in La nuova bussola quotidiana


« Previous Entries

Powered by WordPress | Designed by Kerygma