William Buckley, il demiurgo dei conservatori; by Marco Respinti

«Kennedy si lamenta continuamente che noi stiamo tentando di diffondere il messaggio comunista in tutta l’America latina. Che si lamenti pure. Diffondere la rivoluzione è affar nostro». Così Fidel Castro arringa i compagni nel thriller di William Frank Buckley jr. Caccia alla mangusta (trad. it., Sonzogno, Milano 1988) dove la CIA cerca di far fuori il líder maximo alla vigilia dell’attentato che invece ucciderà JFK.

Caccia alla mangusta è un’opera di fantasia, certo; eppure Buckley qualcosina delle mosse della CIA la sapeva per davvero. Per molti versi Blackford Oakes, il protagonista dei suoi gialli (scontato il riferimento allo 007 di Ian Fleming, anche se qui l’agente è americano), interpreta Buckley stesso: sciccherie, Ivy League e qualche scrupolo morale quando è l’ora di premere il grilletto. Ma su quel melange di fiction e di verità storiche, di cui si compongono giocoforza i polizieschi buckleyani, la precedenza logica e cronologica l’ha proprio il rapporto di amorosi sensi con l’Agenzia, quella vera. Senza di essa, Buckley non sarebbe infatti mai stato Buckley; negli Stati Uniti non ci sarebbe mai stato il movimento conservatore; alla Casa Bianca si sarebbero seduti altri presidenti; insomma, il mondo sarebbe stato diverso. Buckley è allora la prova provata del complottone dei servizi segreti? Qualcuno lo ha pensato e pure scritto, ma ci si è guadagnato solo il Nobel del fantasy (che per l’appunto non esiste).

Buckley è infatti sempre stato troppo originale, libero, istrionicamente indomabile e talora persino stizzoso per agire da semplice figurante o far da fantoccio. E poi ha sempre avuto più classe. Mettiamola così: ebbe una idea geniale; la trasformò in un progetto serio quando a qualche cocktail incontrò le persone giuste che avevano la forza pratica di fargliela realizzare; se ne servì con una eleganza che ha fatto invidia a molti; e nel mezzo ci si è pure divertito. La CIA? Sia lode, se uno come Buckley ha saputo aggiogarla ad maiora.

Di Buckley il 27 febbraio sono ricorsi quattro anni da quando fu trovato, 82enne, stroncato da un colpo al cuore sul pavimento della sua casa di Stamford, in Connecticut, dove da qualche anno si era oramai  ritirato. Non certo a vita privata, ma a riflettere su quella sua esistenza lunga, e ricca, e perché no pure felice, apparecchiandosi alla morte. Paura no, interrogativi sì. Sapeva a menadito, perché tutti i conservatori old-style lo sapevano a menadito, quella frase che Platone mette in bocca a Socrate, «Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta», e lui di cose da esaminare ne aveva tante.

Nel 1997 aveva pubblicato Nearer, My God to Thee: An Autobiography of Faith (Doubleday, New York) chiedendosi profondamente di Dio, di quel Dio cristiano e cattolico che amava in modo profondo e maschio, anche guascone ma sempre devoto. Chiedersi di Dio, della morte e pure del dopo è infatti lecitissimo se si è credenti della stoffa di Buckley, cioè cattolici “da rito antico”, “Catechismo di san Pio X” e interesse per la mistica italiana Maria Valtorta (1897-1961). Era del resto venuto su così, Buckley, rampollo di quelle gang altolocate e un po’ puzzosottoilnasiste che a New York un tempo c’erano e che sono state anche fucina di cattolici tutti d’un pezzo, finiti poi a ingrossare le fila del mondo conservatore. Lì Buckley nacque nel 1925.

Ricordo distintamente quando, qualche anno prima dell’uscita in libreria di Nearer, My God to Thee, Russell Kirk (1918-1994), il decano dei conservatori, ricevette da Buckley – come la ricevettero alcuni altri spiriti magni di quel mondo – una richiesta di proferire qualche pensiero forte su Dio da rimuginare e macerare in quel suo libro di molto dopo, faticoso, accidentato, che egli andava lentamente costruendo. La fede granitica di Buckley riposava certamente sulla dottrina della Chiesa dei cattolici e però questa egli un dì l’apostrofò «madre sì, maestra no», facendo pure un po’ di confusione fra Papa, clero e teologi, al tempo del post-Concilio aggressivamente sbalestrato. A tratti fu interlocutoria anche la sua fede, magari persino dubbiosa, ma dov’è lo scandalo? La vertigine sublime del fascino di Dio che tutto abbraccia si palpa sempre in ogni cosa che Buckley ha scritto, e detto, e fatto, persino negli svarioni e negli errori, che sono pure stati tanti e grandi, proprio come tanti e grandi sono stati suoi nemici e i suoi critici che spesso avevano più ragione di lui ma altrettanto frequentemente carità pochina.

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Se la cristianofobia è un’occasione, by Marco Respinti.

«Nel mondo islamico, i cristiani vengono massacrati per la loro fede religiosa. Siamo davanti a un genocidio dilagante che dovrebbe suscitare allarme a livello globale». Lo sappiamo. Ma che la denuncia campeggi dalla copertina di Newsweek è una vera notizia.

Il settimanale statunitense ha dedicato al tema un ampio servizio che porta la firma famosa e impegnativa di Ayaan Hirsi Magan Ali. Nata a Mogadiscio, figlia di un signore della guerra somalo, “rinata” nei Paesi Bassi, Ayaan diventa famosa quando, il 2 novembre 2004, il regista neerlandese Theo van Gogh, per il quale aveva scritto la sceneggiatura del cortometraggio Submission, viene ucciso da Mohammed Bouyeri, killer musulmano di origini marocchine. Da allora la Ali vive sotto scorta, si è trasferita a Washington dove lavora per il neoconservatore American Enterprise Institute for Public Policy Research e della sua irriducibile avversione all’islam non fa alcun mistero. Meno digeribile è invece le sua critica piuttosto laicista della religione.

Ayaan non rivela certo novità travolgenti quando ricorda le stragi efferate di Boko Haram in Nigeria, le mattanze che lordano di sangue cristiano il Sudan, l’ordalia continua di un Paese, l’Egitto, le cui “giovani promesse” hanno pensato bene di inaugurare la “corsa alla democrazia” massacrando 23 copti il 1° gennaio 2011 nella Chiesa dei Santi di Alessandria (famosissima la foto del Cristo macchiato di sangue che anche Newsweek sceglie per la copertina), le violenze anticristiane in Iraq, la situazione intollerabile del Pakistan e l’Arabia Saudita custode dei “luoghi santi” dell’islam che vieta con rigore più che zelante la costruzione di qualsiasi edificio di culto cristiano. Ma il punto vero è che questo compitino diligente e utile compaia con grande enfasi sulla copertina di un settimanale non certo di apologetica cristiana scritto non certo da una missionaria (chi non masticasse l’inglese può contare sulla traduzione, parziale, che il 13 febbraio ne ha offerto il Corriere delle Sera nella pagina degli Esteri, la 17esima, senza nemmeno un richiamo in prima).

Ciò – ipotizziamo – avviene per tre motivi. Il primo è che l’evidenza dei massacri anticristiani è tanto grande e cogente che nessuno, meno ancora un entourage di professionisti di primo piano come quello che produce Newsweek, può permettersi di continuare a bucare la notizia.

Il secondo è il fallimento palese delle cosiddette “primavere arabe”, indossate acriticamente da tutti ma ora rovesciatesi (ed era facilissimo prevederlo da subito) nell’esatto contrario di quanto auspicati dal “buonismo”. Che i copti rimpiangano i giorni di Hosni Mubarak – che pure li angheriava – per non rassegnarsi alla “piazza salafita” e che ai “ribelli” gli assiri preferiscano Bashar Assad – che, ricambiati, non amano – è totalmente paradossale quanto altamente significativo.

Terzo, ultimo e forse a lungo termine più fecondo motivo è che un certo mondo, quello che Newsweek se non altro fotografa bene, quello per intendersi che pensa ai propri tornaconti, alle “magnifiche sorti e progressive”, alla Chiesa se può darle addosso, insomma un certo mondo laico-laicista e radical-chic, si rende conto che solo i cristiani sono seme di civiltà. Che una sola è la cultura che genera il vero umanesimo dei diritti e delle libertà. Che se in Medioriente, Africa e Asia trionfasse il modello islamico, il mondo come lo abbiamo conosciuto finirebbe, prospettando poco di buono per quello che lo sostituirà. Insomma, che se là dove sono minoranza vessata e perseguitata perdiamo i cristiani come interlocutori del nostro mondo diviso tra postcristianesimo e nuova evangelizzazione, cioè come pilastri e architravi di isole di società autenticamente «a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (beato Giovanni Paolo II) dove invece di Dio vige un’idea errata e quindi l’uomo muore, tutto è perduto.

Ai tempi in cui il Libano era lacerato tra quattro eserciti invasori e i cristiani ne pagavano il prezzo, l’allora Segretario di Stato americano cinico e liberal Henry Kissinger pensò che la soluzione ottimale fosse che i maroniti, segno di contraddizione ma unica condizione di pace vera, lasciassero il Paese, ridislocandosi per esempio in quel Canada dove di spazio ne hanno da vendere. Ecco, la mano che Newsweek decide di tendere oggi alla lotta contro la “cristianofobia” suggella il tramonto definitivo di quella prospettiva sciagurata, un’azione fattualmente meritoria quali che ne siano le ragioni.

Da che conseguono due cose fondamentali: la prima è che, giunta pure la benedizione liberal, ora non ci sono più scuse per tollerare oltre la strage; la seconda è che la difesa pur strumentale dei cristiani da parte dei liberal è comunque un’occasione d’oro per cominciare a rievangelizzare anche la parte peggiore dell’Occidente. Finché infatti i popoli e le persone continueranno a saltare il mare per venire da noi, mentre invece nessuno fa l’inverso – se ne rende conto pure Newsweek -, avremo su tutti un incommensurabile vantaggio apologetico.

From La Bussola Quotidiana

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