Hungarian Septic Services, Ideology and Human Dignity, by Bradley J. Birzer.

No one I know personally who knew Thomas Molnar (1921-2010) has ever said a kind word about his personality. If anything, he gained notoriety, even among those who respected him, through an infamy of intolerance, often under the unimaginative guise and excuse of “not suffering fools gladly.” This, in part, helps explain the lack of almost any notice of his death by the conservative world in 2010. He passed into the next world without—really—even a brief sigh or a fond fare well from this one. Few even offered a bitter fare well. Almost all seemed to have simply forgotten the man.

A recent google search reveals almost as many hits for a Thomas Molnar Septic Tank Service in South Bend as it does for the deceased Hungarian scholar. Yet, at one point, he served as a mainstay for both Commonweal and National Review.

Whatever his deficiencies in personality, no one could claim Molnar did not possess a rather expansive genius. Even a cursory examination of his publications—in terms of books as well as articles—overwhelms the would-be researcher. As with many of the greats of his generation, he wrote widely on a variety of topics and in a variety of fields on his heroes such as George Bernanos, educational theories, intellectualism, and the confluence of media and ideology.

His prolific output revivals that of Russell Kirk, a man who inspired, intrigued, and perplexed the Eastern European. Though the two walked across North Africa together in the summer of 1963, Molnar’s published travel memoir mentions Kirk only as an eccentric travel companion who attracted the attention of innumerable Arab and Berber children because of his outlandish appearance.

The Michiganian offered his own praise of Molnar far more openly, considering the Hungarian’s early book on the history of intellectuals, The Decline of the Intellectual, to be one of the most important works of the century.

A Christian Humanism of Sorts

Much of what Molnar wrote and argued during his adult life would fit nicely into the realm of possibilities for those admired at The Imaginative Conservative. Yet, he was always more of a European conservative than an American one. He might very well have been the model—if somewhat imagined on the Austrian’s part—conservative for Hayek’s 1957 famous Mont Pelerin Address, “Why I am Not a Conservative.”

From an American perspective, Molnar might fit better into the category of reactionary than conservative. Admittedly, such labels are as arbitrary as they are problematic. But, Molnar was a man who admired Charles Maurras and many of the Spaniards allied with Franco, but who also actively despised the National Socialists and found himself imprisoned in Dachau at the end of the Second World War. Molnar’s counterrevolutionary streak was as anti-ideological as it was curmudgeonly and, as John Zmirak has so effectively argued, always contrarian. In the end, Molnar believed the communists and the fascists of all stripes to share more in common than not, especially in their embrace of modernity and Gnosticism.

Whatever brief intellectual flirtations Molnar had with the extreme right of his youth, by the 1960s, Molnar had returned to his childhood faith and embraced an orthodox—if somewhat rigid—Roman Catholicism. Certainly, one could place Molnar into the category of Christian humanist, a title, role, and idea to which he gave much thought and spiritual assent. When assessing Molnar’s role in the twentieth century, we will miss his profundity as a thinker if we do not take this Christian humanism into account.

Utopia and the Ideologues

Of his many works, Molnar’s 1967 book, Utopia: The Perennial Heresy, published in the final days of the greatness of Sheed and Ward remains, perhaps, his most intriguing and relevant to today’s problems. In it, Molnar analyzed what he considered the never-ending temptation in this world, the belief that man can achieve perfection by his own will and ability and without God. Of course, Molnar offers nothing profound or original in this. Great writers and thinkers throughout the Judeo-Christian tradition had recognized the origins of perfectionism in the devil’s temptation in the Garden.

Unlike many others, though, especially those who describe the first temptation in the bible in passing, Molnar presents a very complex argument against it, noting that even the very thought of perfection is evil. Yet, because of the fall, man easily slides into such dangerous thinking.

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E il mito si fece carne. L’avventura di Russell Kirk, by Marco Respinti.

Il logos si è fatto carne, dice il Vangelo secondo san Giovanni. E quindi anche il mito è divenuto un fatto, glossa C.S. Lewis (1898-1963) in un breve, densissimo saggio del 1944, Myth Became Fact, che spiega perfettamente cosa intendesse J.R.R. Tolkien (1892-1973) affermando: «Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. […] L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”» (Sulle fiabe, 1939); cosa intendesse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) ‒ maestro di Lewis e di Tolkien ‒ parlando di “etica del paese delle fate” e addirittura paragonando il Magnificat alla fiaba di Cenerentola (Ortodossia, 1908); e cosa intendessero Chesterton e Lewis con “sacramentalizzazione dell’immaginazione” a proposito di George MacDonald (1824-1905), maestro loro e pure di Tolkien.

Ne tratta dottamente, proprio ragionando degli autori citati, il cardinal Christoph Schönborn ne Il Mistero dell’Incarnazione (Piemme, Milano 1989), un “vecchio”, prezioso libro tradotto dal tedesco dal padre gesuita Guido Sommavilla (1920-2007), massimo esperto di Romano Guardini, Franz Kafka, Friedrich Nietzsche, Fëdor M. Dostoevskij e guarda caso proprio Tolkien, quasi anticipando una sensibilità teologica, nutrita di potenti suggestioni letterarie, popolare oggi con Papa Francesco. Ebbene, uno degli ultimi epigoni di questo sposalizio tra filosofia e fantasia celebrato secondo il rito di santa romana Chiesa è il pensatore statunitense Russell Kirk (1918-1994), di cui ricorre oggi, 29 aprile, il ventennale della scomparsa.

Kirk è noto soprattutto come “padre” del conservatorismo americano del secondo Novecento, come neo-giusnaturalista cristiano alla scuola di Edmund Burke (1729-1797) e come apologeta antigiacobino della storia istituzionale americana. Ma nulla di tutta la sua riflessione “politica” (30 volumi, centinaia fra saggi e articoli) sarebbe venuto alla luce se egli non avesse sempre coltivato, con timore e tremore, il senso del mistero insito nella realtà umana.

Kirk è stato infatti anzitutto un cantore dell’irriducibilità dell’esperienza umana alla semplice materia (una delle sue citazioni preferite è di Burke, là dove lo statista anglo-irlandese descriveva così la spaccatura epocale introdotta dalla Rivoluzione Francese: «Ma l’era della cavalleria è finita. Le è succeduta quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori, e la gloria d’Europa è estinta per sempre»), e proprio per questo un avversario lucido delle ideologie e delle ideocrazie.

Per Kirk la stoffa dell’avventura umana è il legame con il trascendente che la definisce e il bisogno religioso che la costituisce, da cui derivano quel senso del limite e quella vocazione comunitaria che sono le uniche coordinate di una politica a misura di uomo, e possibilmente, direbbe san Giovanni Paolo II (a cui, in punto di morte, è andato l’ultimo pensiero di Kirk), secondo il piano di Dio. Per questo il pensatore americano sospettava di tutte quelle ciclopiche costruzioni umane, fisiche e metafisiche, che altro non sono se non ennesime Babeli; come Chesterton, Kirk aveva imparato dalle metafore delle favole che i giganti vanno abbattuti proprio perché sono giganteschi, monumenti vani alla smisuratezza dell’orgoglio umano.

La famiglia in cui nacque aveva educato Kirk a una morale rigida e spartana, erede di un retaggio calvinista che strada facendo aveva però perso i tratti della vera spiritualità riducendosi a un codice. Efficace, ma estremamente limitato. Costretto a lungo alla solitudine, Kirk prese allora a confrontarsi con quei campioni dell’umano sentire che prima di lui, e meglio di lui, si erano trovati ad affrontare le stranezze, le difficoltà e le domande dell’esistenza. Maturò dunque dialogando con autori che nessuno leggeva più: Kirk l’ha definita una “conversione intellettuale”, ma è strano perché quell’etichetta lo irritava. Voleva solo dire che nessun fatto eclatante gli stravolse un giorno la vita; ma anche qui, intendiamoci. Le molte narrazioni della sua storia personale (scritte come romanzi non romanzati) mostrano bene come la “normalità” della sua vita sia sempre stata “straordinaria”. Come le vite di tutti. Come in una favola, una fiaba o un mito (direbbe il Tolkien che Kirk molto amava) che per di più hanno il supremo vantaggio di essere accaduti sul serio.

Kirk ha affrontato de visu il mistero dell’esistenza umana anzitutto come cantore dell’avventura “mitica” dell’uomo di fronte all’Assoluto (componendo così anche storie di paura e thriller metafisici tra i più belli di questo genere letterario) e in questo modo ha imparato l’umile saggezza di farsi seguace di chi, più avanti di lui lungo questo cammino, lo ha saputo trarre per mano dal mito alla storia. Due nomi su tutti, appositamente diversissimi: il “grande” T.S. Eliot (1898-1965) ‒ di cui fu prima discepolo, e poi amico e biografo ‒ e Annette, l’“attivista” cattolica che sposerà nel 1964, “piccola” parrebbe, ma enorme nel portarne a conclusione la conversione, avvenuta in quello stesso 1964 (mezzo secolo fa esatto).

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Il polemista cattolico che dialogò col Papa, by Marco Respinti

Domenica sera, la prima di Quaresima, è scomparso Mario Palmaro, giornalista elegante, saggista colto, polemista di verve rara in questi tempi appiattiti sul nulla.Mario Palmaro (1968-2014)

 

Stazza a parte (Mario aveva un fisico da invidia), un po’ ricorda il grande Gilbert K. Chesterton: penna acuminata e sorriso sempre. Cattolico profondo, “antico” e intransigente, sapeva, non solo in ultimo, che davanti al Crocifisso il resto è nulla: «Con la malattia», ha scritto, «capisci per la prima volta che il tempo della vita quaggiù è un soffio, avverti tutta l’amarezza di non averne fatto quel capolavoro di santità che Dio aveva desiderato, provi una profonda nostalgia per il bene che avresti potuto fare e per il male che avresti potuto evitare. Guardi il crocifisso e capisci che quello è il cuore della fede: senza il Sacrificio il cattolicesimo non esiste. Allora ringrazi Dio di averti fatto cattolico, un cattolico “piccolo piccolo”, un peccatore, ma che ha nella Chiesa una madre premurosa».

 

Laureatosi nel 1995 all’Università degli Studi di Milano con una tesi sull’aborto, di cui è stato un arcinemico giurato, perfezionatosi in Bioetica all’Istituto San Raffaele di Milano, ha collaborato con il Centro di Bioetica dell’Università Cattolica e ha insegnato a Roma nel Pontificio Ateneo Regina Apostolorum e nell’Università Europea.

 

Interista impenitente e gran cultore di Giovannino Guareschi, ha fatto dell’apologetica seria e faceta il suo pane quotidiano in una trentina di libri distribuiti lungo tre lustri, molti dei quali scritti con l’amico Alessandro Gnocchi. Scrisse molto su il Giornale e Libero, sui mensili Studi cattolici e Il Timone, sull’online La nuova Bussola Quotidiana e da ultimo su Il Foglio. Qui Palmaro ha preso di petto nientemeno che Papa Francesco: troppo prossimo al relativismo morale e religioso; troppo falsamente umile; troppo contradditorio con il Catechismo e il Magistero di sempre. Roba da bruciarsi. Ora quelle lenzuolate al vetriolo, benedette dal direttore Giuliano Ferrara, le raccoglie Piemme nel libro Questo papa piace troppo in uscita oggi. E il senso di bruciore non fa che acuirsi. Palmaro ci rimise infatti la sua trasmissione alla popolarissima e papalinissima Radio Maria; e Papa Francesco – come i lettori di Libero sanno bene giacché è stato Libero a raccontare al meglio questa vicenda un po’ surreale – ha creduto di dover alzare il cornetto per parlarne a tu per tu. Cosa gli abbia davvero detto non lo sapremo mai, meglio. Ma se grande è lo scompiglio che Palmaro ha gettato dentro la “destra” cattolica (la “sinistra” non ha invece ancora smesso di fregarsi le mani), rimane il bel sospetto che per il suo caso valga il detto “chi disprezza compra”. Per certo non tutti gli anti-Francesco di oggi sono altrettanti picconatori devoti, né come lui amici maledettamente simpatici.

 

Domani, 12 marzo, ci sono i funerali, alle 10,45, nel Duomo di quella Monza dove Palmaro viveva dopo essere nato 45 anni fa a Cesano Maderno. Lascia la moglie, quattro figli tra i 7 e i 14 anni, il “Comitato Verità e Vita” che creò contro la cultura di morte, il suo bell’accento lombardo, un mucchio d’interrogativi e una testimonianza che vorremmo un dì avere la fede di fare nostra: «Alle volte mi immagino la mia casa, il mio studio vuoto, e la vita che in essa continua anche se io non ci sono più. È una scena che fa male, ma estremamente realistica: mi fa capire che sono, e sono stato, un servo inutile, e che tutti i libri che ho scritto, le conferenze, gli articoli, non sono che paglia. Ma spero nella misericordia del Signore, e nel fatto che altri raccoglieranno parte delle mie aspirazioni e delle mie battaglie, per continuare l’antico duello».

Published in La Bianca Torre di Ecthelion


Bertrand de Jouvenel: Forgotten Conservative, by Bruce Frohnen

In the disaster for humanity that was the 20th Century, dominated by the murderous dreams of collectivist ideologies and the unrestrained lust for power and the knife, those who loved liberty, be they conservative, libertarian, or “classical liberal,” recognized their common cause: opposition to ever-expanding state power. T.S. Eliot, Christopher Dawson, and Russell Kirk sought to redeem the time through recovery of our understanding of the spiritual bases of culture, and the cultural bases of ordered liberty. They were joined, in the economic sphere, by the likes of Wilhelm Roepke, but also by more secularist, market-centric thinkers like F.A. Hayek, who warned of the false appeal and disastrous consequences of following the Road to Serfdom. Yet, this sometimes uneasy partnership of defenders of cultural renewal and economic liberty included figures who sought to bridge the gap between cultural and economic thought. Such a one was Bertrand de Jouvenel, a conservative political thinker of great importance, whose writings from the middle to the second half of the 20th century deserve a wider audience than they receive.

In important works of political thought, including Sovereignty, On Power, and The Pure Theory of Politics, and also in works and essays dealing with economics and questions of how best to approach problems of public policy, Jouvenel made clear the tendency of the modern state to swallow the rest of society, and the individual with it. Ironically, Jouvenel observed, what made the state so dangerous in modern times was precisely what to most people gave to it its legitimacy: democracy.  To many, this recognition of the dark side of democracy rendered Jouvenel’s thought suspect, at best. But his point was not that rule by consent is intrinsically wrong or unjust. Rather, it was that we should recognize the proper limits even of the people to act according to their will, and that such recognition is all the more important in democratic times. From recognition of the importance of the consent of the governed, modern democracy moved to the assumption that governments are legitimate to the extent that they serve the unmediated will of the majority led. Relatively early on, this overemphasis on the normative status of The People (too often little more than an abstraction) led to the common assumption that whatever a democratically elected government did was, by definition, right and just. One need only consider the French Revolutionary Reign of Terror and its claim to act for the people to see the wisdom of Jouvenel’s warning.

In a collection of lectures published as The Ethics of Redistribution, Jouvenel showed how false belief in the power of the majority to achieve a just, fair, and (especially) equal society could succeed only in feeding the Minotaur—that monstrous combination of man and beast that the modern state had become. Thinking, wrongly, that the rich had kept for themselves sufficient wealth to satisfy the needs of all, the people for generations have voted for governmental policies aimed at “redistributing” that wealth so as to meet the needs of the poor. Unfortunately, Jouvenel points out, even if one were able to confiscate all the rich had in their possession, the sum would not come close to meeting the needs of even the poorest. Thus, Jouvenel argued, the wealth “transfer” had not been, and could not be, from the rich to the poor, but rather from most of society to the state. Various programs aimed, in theory, at enriching the lives of the poor would be funded from a general tax, taking money from most people so that the government might spend it on those it deemed worthy or in need. From attempting to provide subsistence to the hungry and the cold, the state quickly moved on to funding various ideological projects, including wasteful forms of subsidized insurance and educational programs and artistic endeavors of highly questionable value, as it built an expensive administrative apparatus to determine how much to give to whom. In this manner the state became increasingly powerful and independent of any check or oversight, even as it maintained the guise and the rhetoric of a mere servant of the people.

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Eugenio Corti, il cantastorie del Regno, by Giulia Tanel

La sera di martedì 4 febbraio Eugenio Corti ha fatto ritorno al Padre. Classe 1921, lo scrittore aveva conformato la sua vita al versetto del Padre Nostro che recita “Venga il Tuo Regno”, combattendo la buona battaglia tramite la scrittura.

Uomo dal portamento distinto e dal fare pacato ma anche caparbio, Corti scrutava con i suoi attenti occhi azzurri i tanti lettori, molto spesso giovani, che si recavano a trovarlo nella sua casa in Brianza. Personalmente ricordo il suo atteggiamento vigoroso e paterno, dettato e supportato dalle decisive esperienze maturate durante la Seconda Guerra Mondiale e da una fede granitica. Dialogando con lui si aveva la percezione di essere di fronte a un maestro da cui attingere preziose considerazioni sul passato e sull’epoca contemporanea; nel contempo, emergeva anche la consapevolezza di essere in presenza di una persona cui – da cattolici – guardare come modello di comportamento, perché lo sguardo di Corti, benché permeato di un sano realismo, era sempre orientato a Dio.

Non a caso, accanto all’età d’oro greca, il periodo storico più amato dallo scrittore brianteo era il Medioevo, ossia l’epoca in cui il messaggio cristiano si è diffuso in maniera capillare ed è diventato un fenomeno ‘di popolo’, dando luogo alla Res Publica Christiana. In quei secoli, troppo spesso classificati come ‘bui’ e invece ricchissimi sotto diversi aspetti, ogni ambito del vivere quotidiano era orientato – seppur con le dovute eccezioni – agli ideali del Vangelo: dal modo di concepire la guerra e la cavalleria, allo sviluppo dell’arte pittorica e architettonica, al ruolo assegnato alle donne… E proprio riguardo quest’ultimo aspetto, entrando nella casa di Corti si rimaneva piacevolmente colpiti dalla presenza riservata, ma assolutamente rilevante, di sua moglie Vanda, che lo scrittore contemplava ancora con sguardo innamorato e riconoscente, nonostante fossero sposati dal 1951.

Ma si diceva della centralità della fede nella vita e nel pensiero di Corti, la quale trova conferma anche nei suoi articoli e nei libri – molto vari per genere e argomento – ch’egli ha scritto dal 1947 in avanti. Tra questi spicca per importanza il romanzo storico Il Cavallo Rosso (Edizioni Ares, 1983), oramai giunto alla ventinovesima edizione e tradotto in otto lingue. Questo testo – che ha richiesto a Corti ben undici anni di lavoro – narra le vicende di alcuni ragazzi della Brianza e del loro incontro con il mondo esterno, sullo sfondo dei grandi avvenimenti storici succedutisi in Italia e nel mondo tra il 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, e il 1974, anno del referendum sul divorzio. Scorrendo pagina dopo pagina, moltissimi lettori sono rimasti avvinti nella narrazione e – oltre ad aver potuto rivivere quasi in presa diretta gli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione – hanno avuto modo di apprezzare le riflessioni storiche, teologiche e teleologiche che Corti non mancava mai di inserire nei propri scritti, in forma più o meno diretta.

Un’altra opera fondamentale lasciataci dallo scrittore brianteo è Il fumo nel Tempio (Edizioni Ares, 1996), una raccolta di articoli scritti dal 1970 in poi sulla difficile situazione della Chiesa nel post Concilio, sulla perdita di valori della società, sulla crisi della politica e in particolare della Democrazia Cristiana e, infine, sull’egemonia di una cultura di matrice laica e troppo spesso ideologizzata. Sono testi di una lucidità spesso disarmante, propria di un osservatore attento e onesto qual era Corti, convinto che il parametro di giudizio cui fare riferimento è sempre l’insegnamento di Cristo, perché solo in questo modo è possibile vivere in pienezza e gustare anche in terra un imperfetto assaggio di felicità e di Bellezza.

Sintomatica di quest’approccio alla vita è la risposta data da Corti alla domanda su quale fosse la cosa più bella che gli sia mai accaduta: «L’essere venuto al mondo, sicuramente. La prova è stata anche dura, come per tutti. Ma è stato l’esistere, l’essere, che mi ha aperto tutte le altre porte. Anche quella della consolante Speranza cristiana in una felicità intramontabile in Dio, dopo la morte terrena».

Al termine di una vita intensa e luminosa, la poesia posta da Eugenio Corti in calce alle 1274 pagine che compongono Il Cavallo Rosso appare quasi come un suo testamento: “Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, / li amava, / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama” (T.S. Eliot). Requiescat in pace!

Published in La nuova bussola quotidiana


La inmortalidad de la abuela, by Kiko Méndez-Monasterio

La religiosidad de un pueblo no puede extirparse como un tumor, como pensaba Azaña en su momento, cuando creyó que él podía legislar también sobre las almas y dijo aquella estupidez de que España había dejado de ser católica, para ver después como la propia historia le rectificaba con toda contundencia. El mismísimo Leninopinaba parecido, confiando en que su revolución acabaría con el opio espiritual, y que para ello sólo hacía falta tiempo: “Cuando mueran las abuelas, nadie recordará que un día en Rusia hubo una Iglesia”. Pero sucede que esa profecía laica se desmiente en cada generación, y que todos los esfuerzos por arrinconar y silenciar el hecho religioso nunca son suficientes.

Aunque nadie lo diría viendo la repercusión mediática, cada domingo acude muchísima más gente a las iglesias que a los estadios de fútbol, y el desprestigio de lo católico en ciertas élites culturales y políticas sólo muestra lo distanciadas que están de la sociedad real o, como dirían los anglosajones, lo sordas que son al clamor del contribuyente, que merecería más respeto por parte de los poderes públicos.

La nueva fiebre anticlerical que enardece a lo progre desde el zapaterismo también es parte de esa herencia que Mariano Rajoy se empeña en no rechazar. Muchos de los ataques que sufre la Iglesia son financiados con los impuestos vía subvenciones a grupos radicales o a espectáculos grotescos camuflados como cultura. Que la práctica sea casi tradicional en los gobiernos socialistas, no quiere decir que haya dejado de ser escandalosa, ni que sea inevitable para el gobierno popular, ni tampoco que el odio antireligioso vaya a conformarse con esto. Crece la hostilidad que sufren los fieles católicos, se interrumpen los oficios religiosos, se ha tratado de prender fuego a más de una iglesia, y ahora al cardenal Rouco lo maltratan en la calle, como en una versión feminista de la naranja mecánica. Más terrible, todavía, resulta comprobar como este clima de fanatismo cristianófobo es alimentado desde ciertos medios de comunicación que -en ocasiones rozando el ilícito penal- parecen querer convertir a la Iglesia en objetivo lícito de la violencia. Tampoco esto es nada nuevo, se empieza por deshumanizar a la víctima, en presentarla como enemiga de la libertad y del progreso, y se acaba por celebrar las fallas en las basílicas. Si hablasen de la religión judía en los términos en los que se califica a la católica en varios periódicos y televisiones, probablemente nos echaban de la ONU. Pero parece que contra Roma vale todo, y les crece el odio y la rabia por la persistencia de lo espiritual en el pueblo español, a pesar de tantos años de acción y propaganda.

La misma perplejidad asaltaba a los soviéticos en los años ochenta al contemplar como décadas de totalitarismo ateo no habían logrado extirpar la religión, y al tener que asumir que la Iglesia Ortodoxa renaciera con una -para ellos- exasperante vitalidad. Ante el sorprendente regreso de los popes y de las iglesias llenas, un miembro del Politburó se acordaba de las palabras de Lenin y no dudó en matizarlas: “En Rusia las abuelas nunca mueren”. En España, de momento, tampoco.

Published in www.intereconomia.com


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