Bertrand de Jouvenel: Forgotten Conservative, by Bruce Frohnen

In the disaster for humanity that was the 20th Century, dominated by the murderous dreams of collectivist ideologies and the unrestrained lust for power and the knife, those who loved liberty, be they conservative, libertarian, or “classical liberal,” recognized their common cause: opposition to ever-expanding state power. T.S. Eliot, Christopher Dawson, and Russell Kirk sought to redeem the time through recovery of our understanding of the spiritual bases of culture, and the cultural bases of ordered liberty. They were joined, in the economic sphere, by the likes of Wilhelm Roepke, but also by more secularist, market-centric thinkers like F.A. Hayek, who warned of the false appeal and disastrous consequences of following the Road to Serfdom. Yet, this sometimes uneasy partnership of defenders of cultural renewal and economic liberty included figures who sought to bridge the gap between cultural and economic thought. Such a one was Bertrand de Jouvenel, a conservative political thinker of great importance, whose writings from the middle to the second half of the 20th century deserve a wider audience than they receive.

In important works of political thought, including Sovereignty, On Power, and The Pure Theory of Politics, and also in works and essays dealing with economics and questions of how best to approach problems of public policy, Jouvenel made clear the tendency of the modern state to swallow the rest of society, and the individual with it. Ironically, Jouvenel observed, what made the state so dangerous in modern times was precisely what to most people gave to it its legitimacy: democracy.  To many, this recognition of the dark side of democracy rendered Jouvenel’s thought suspect, at best. But his point was not that rule by consent is intrinsically wrong or unjust. Rather, it was that we should recognize the proper limits even of the people to act according to their will, and that such recognition is all the more important in democratic times. From recognition of the importance of the consent of the governed, modern democracy moved to the assumption that governments are legitimate to the extent that they serve the unmediated will of the majority led. Relatively early on, this overemphasis on the normative status of The People (too often little more than an abstraction) led to the common assumption that whatever a democratically elected government did was, by definition, right and just. One need only consider the French Revolutionary Reign of Terror and its claim to act for the people to see the wisdom of Jouvenel’s warning.

In a collection of lectures published as The Ethics of Redistribution, Jouvenel showed how false belief in the power of the majority to achieve a just, fair, and (especially) equal society could succeed only in feeding the Minotaur—that monstrous combination of man and beast that the modern state had become. Thinking, wrongly, that the rich had kept for themselves sufficient wealth to satisfy the needs of all, the people for generations have voted for governmental policies aimed at “redistributing” that wealth so as to meet the needs of the poor. Unfortunately, Jouvenel points out, even if one were able to confiscate all the rich had in their possession, the sum would not come close to meeting the needs of even the poorest. Thus, Jouvenel argued, the wealth “transfer” had not been, and could not be, from the rich to the poor, but rather from most of society to the state. Various programs aimed, in theory, at enriching the lives of the poor would be funded from a general tax, taking money from most people so that the government might spend it on those it deemed worthy or in need. From attempting to provide subsistence to the hungry and the cold, the state quickly moved on to funding various ideological projects, including wasteful forms of subsidized insurance and educational programs and artistic endeavors of highly questionable value, as it built an expensive administrative apparatus to determine how much to give to whom. In this manner the state became increasingly powerful and independent of any check or oversight, even as it maintained the guise and the rhetoric of a mere servant of the people.

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Eugenio Corti, il cantastorie del Regno, by Giulia Tanel

La sera di martedì 4 febbraio Eugenio Corti ha fatto ritorno al Padre. Classe 1921, lo scrittore aveva conformato la sua vita al versetto del Padre Nostro che recita “Venga il Tuo Regno”, combattendo la buona battaglia tramite la scrittura.

Uomo dal portamento distinto e dal fare pacato ma anche caparbio, Corti scrutava con i suoi attenti occhi azzurri i tanti lettori, molto spesso giovani, che si recavano a trovarlo nella sua casa in Brianza. Personalmente ricordo il suo atteggiamento vigoroso e paterno, dettato e supportato dalle decisive esperienze maturate durante la Seconda Guerra Mondiale e da una fede granitica. Dialogando con lui si aveva la percezione di essere di fronte a un maestro da cui attingere preziose considerazioni sul passato e sull’epoca contemporanea; nel contempo, emergeva anche la consapevolezza di essere in presenza di una persona cui – da cattolici – guardare come modello di comportamento, perché lo sguardo di Corti, benché permeato di un sano realismo, era sempre orientato a Dio.

Non a caso, accanto all’età d’oro greca, il periodo storico più amato dallo scrittore brianteo era il Medioevo, ossia l’epoca in cui il messaggio cristiano si è diffuso in maniera capillare ed è diventato un fenomeno ‘di popolo’, dando luogo alla Res Publica Christiana. In quei secoli, troppo spesso classificati come ‘bui’ e invece ricchissimi sotto diversi aspetti, ogni ambito del vivere quotidiano era orientato – seppur con le dovute eccezioni – agli ideali del Vangelo: dal modo di concepire la guerra e la cavalleria, allo sviluppo dell’arte pittorica e architettonica, al ruolo assegnato alle donne… E proprio riguardo quest’ultimo aspetto, entrando nella casa di Corti si rimaneva piacevolmente colpiti dalla presenza riservata, ma assolutamente rilevante, di sua moglie Vanda, che lo scrittore contemplava ancora con sguardo innamorato e riconoscente, nonostante fossero sposati dal 1951.

Ma si diceva della centralità della fede nella vita e nel pensiero di Corti, la quale trova conferma anche nei suoi articoli e nei libri – molto vari per genere e argomento – ch’egli ha scritto dal 1947 in avanti. Tra questi spicca per importanza il romanzo storico Il Cavallo Rosso (Edizioni Ares, 1983), oramai giunto alla ventinovesima edizione e tradotto in otto lingue. Questo testo – che ha richiesto a Corti ben undici anni di lavoro – narra le vicende di alcuni ragazzi della Brianza e del loro incontro con il mondo esterno, sullo sfondo dei grandi avvenimenti storici succedutisi in Italia e nel mondo tra il 1940, anno dell’entrata in guerra dell’Italia, e il 1974, anno del referendum sul divorzio. Scorrendo pagina dopo pagina, moltissimi lettori sono rimasti avvinti nella narrazione e – oltre ad aver potuto rivivere quasi in presa diretta gli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione – hanno avuto modo di apprezzare le riflessioni storiche, teologiche e teleologiche che Corti non mancava mai di inserire nei propri scritti, in forma più o meno diretta.

Un’altra opera fondamentale lasciataci dallo scrittore brianteo è Il fumo nel Tempio (Edizioni Ares, 1996), una raccolta di articoli scritti dal 1970 in poi sulla difficile situazione della Chiesa nel post Concilio, sulla perdita di valori della società, sulla crisi della politica e in particolare della Democrazia Cristiana e, infine, sull’egemonia di una cultura di matrice laica e troppo spesso ideologizzata. Sono testi di una lucidità spesso disarmante, propria di un osservatore attento e onesto qual era Corti, convinto che il parametro di giudizio cui fare riferimento è sempre l’insegnamento di Cristo, perché solo in questo modo è possibile vivere in pienezza e gustare anche in terra un imperfetto assaggio di felicità e di Bellezza.

Sintomatica di quest’approccio alla vita è la risposta data da Corti alla domanda su quale fosse la cosa più bella che gli sia mai accaduta: «L’essere venuto al mondo, sicuramente. La prova è stata anche dura, come per tutti. Ma è stato l’esistere, l’essere, che mi ha aperto tutte le altre porte. Anche quella della consolante Speranza cristiana in una felicità intramontabile in Dio, dopo la morte terrena».

Al termine di una vita intensa e luminosa, la poesia posta da Eugenio Corti in calce alle 1274 pagine che compongono Il Cavallo Rosso appare quasi come un suo testamento: “Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, / li amava, / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama” (T.S. Eliot). Requiescat in pace!

Published in La nuova bussola quotidiana


La inmortalidad de la abuela, by Kiko Méndez-Monasterio

La religiosidad de un pueblo no puede extirparse como un tumor, como pensaba Azaña en su momento, cuando creyó que él podía legislar también sobre las almas y dijo aquella estupidez de que España había dejado de ser católica, para ver después como la propia historia le rectificaba con toda contundencia. El mismísimo Leninopinaba parecido, confiando en que su revolución acabaría con el opio espiritual, y que para ello sólo hacía falta tiempo: “Cuando mueran las abuelas, nadie recordará que un día en Rusia hubo una Iglesia”. Pero sucede que esa profecía laica se desmiente en cada generación, y que todos los esfuerzos por arrinconar y silenciar el hecho religioso nunca son suficientes.

Aunque nadie lo diría viendo la repercusión mediática, cada domingo acude muchísima más gente a las iglesias que a los estadios de fútbol, y el desprestigio de lo católico en ciertas élites culturales y políticas sólo muestra lo distanciadas que están de la sociedad real o, como dirían los anglosajones, lo sordas que son al clamor del contribuyente, que merecería más respeto por parte de los poderes públicos.

La nueva fiebre anticlerical que enardece a lo progre desde el zapaterismo también es parte de esa herencia que Mariano Rajoy se empeña en no rechazar. Muchos de los ataques que sufre la Iglesia son financiados con los impuestos vía subvenciones a grupos radicales o a espectáculos grotescos camuflados como cultura. Que la práctica sea casi tradicional en los gobiernos socialistas, no quiere decir que haya dejado de ser escandalosa, ni que sea inevitable para el gobierno popular, ni tampoco que el odio antireligioso vaya a conformarse con esto. Crece la hostilidad que sufren los fieles católicos, se interrumpen los oficios religiosos, se ha tratado de prender fuego a más de una iglesia, y ahora al cardenal Rouco lo maltratan en la calle, como en una versión feminista de la naranja mecánica. Más terrible, todavía, resulta comprobar como este clima de fanatismo cristianófobo es alimentado desde ciertos medios de comunicación que -en ocasiones rozando el ilícito penal- parecen querer convertir a la Iglesia en objetivo lícito de la violencia. Tampoco esto es nada nuevo, se empieza por deshumanizar a la víctima, en presentarla como enemiga de la libertad y del progreso, y se acaba por celebrar las fallas en las basílicas. Si hablasen de la religión judía en los términos en los que se califica a la católica en varios periódicos y televisiones, probablemente nos echaban de la ONU. Pero parece que contra Roma vale todo, y les crece el odio y la rabia por la persistencia de lo espiritual en el pueblo español, a pesar de tantos años de acción y propaganda.

La misma perplejidad asaltaba a los soviéticos en los años ochenta al contemplar como décadas de totalitarismo ateo no habían logrado extirpar la religión, y al tener que asumir que la Iglesia Ortodoxa renaciera con una -para ellos- exasperante vitalidad. Ante el sorprendente regreso de los popes y de las iglesias llenas, un miembro del Politburó se acordaba de las palabras de Lenin y no dudó en matizarlas: “En Rusia las abuelas nunca mueren”. En España, de momento, tampoco.

Published in www.intereconomia.com


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